Quando Deep Blue batté Kasparov nel 1997, nessuno parlò di fine dell’umanità. Ma per molti, fu la prima crepa. Oggi quella crepa è diventata una faglia: l’Intelligenza Artificiale non ci supera solo negli scacchi, ci mette in discussione nel pensiero stesso. La vera paura non è che ci rubi il lavoro. È che ci rubi il primato.
Giovanni Giamminola lo sa bene. Ex CEO, stratega digitale, advisor internazionale con venticinque anni di esperienza manageriale, ha visto il potere da dentro. E oggi ha deciso di scoperchiare il vaso di Pandora con un libro che non insegna a “usare l’AI”, ma a ripensare chi comanda. E come.
“Il problema non è la tecnologia, ma il cervello che la usa”, scrive. Perché l’AI, nella sua visione, non è un tool né un rischio. È un nuovo sistema operativo mentale. Lo chiama System Zero, e non è solo una metafora. È una rivoluzione cognitiva.
Giamminola parte da un dato disarmante: oltre l’80% dei progetti AI aziendali fallisce. E non per mancanza di fondi. Ma per analfabetismo emotivo e culturale dei vertici. «Pensano che basti installare un software. Ma qui serve disinstallare un ego.»
A metà del suo saggio – e al centro della sua tesi – c’è un cambio di paradigma: non più manager che usano strumenti, ma leader che integrano nuove forme di ragionamento. “La supremazia umana non è messa in crisi dalla macchina, ma dalla nostra incapacità di smettere di volerla dimostrare.” E qui la frattura è netta.
Perché i manager resistono? Perché anche quando l’AI ha ragione, molti preferiscono fidarsi dell’intuito. Come i radiologi che, di fronte a una diagnosi più accurata di una macchina, scelgono comunque la loro esperienza. È la sindrome di Kasparov: quando perdere contro un algoritmo mette in crisi la nostra identità.
È questa la vera posta in gioco: non il software, ma il sé. Il potere, dice Giamminola, ha sempre avuto bisogno di narrazione. L’AI rompe quella narrazione. Non è gerarchica, non è umana, non è affascinata da status, uffici panoramici o premi aziendali. “È un consigliere spietato, ma imparziale. E questo destabilizza.”
In un passaggio illuminante, l’autore paragona la rivoluzione dell’AI a quella della scrittura nella Grecia classica. Socrate, nel Fedro di Platone, temeva che scrivere avrebbe indebolito la memoria. Oggi, temiamo che delegare all’AI indebolisca il pensiero. Ma come allora, è solo l’inizio di una nuova forma di intelligenza.
Il libro – e il progetto più ampio del “Manager Potenziato” – non è solo un manuale. È un invito al disarmo. Non retorico, ma strutturale e pragmatico. Giamminola chiama i manager a rinunciare alla centralità narcisistica, per diventare orchestratori di sistemi intelligenti. “Non devi dominare gli altri, tanto meno la macchina. Devi evolvere con lei.”
Lo so, è difficile da digerire. Ma è proprio qui che si gioca tutto.
La paura non nasce dalla tecnologia, ma dall’inadeguatezza culturale con cui la affrontiamo. Le aziende non falliscono per errori di calcolo, ma per presunzione di infallibilità. Il manager potenziato non è più colui che comanda. È colui che ascolta i propri istinti e delega l’analisi dei propri ragionamenti. Che si ristruttura. Che si disidentifica dal controllo.
Un altro passaggio cruciale del libro riguarda il futuro prossimo: gli “agenti AI” avranno presto accesso diretto alle decisioni d’acquisto. Non solo suggeriranno, ma compreranno. E lo faranno senza tener conto dei brand, delle pubblicità, della finale di Champions. Lo faranno meglio. E lo faranno senza emozione. A quel punto, cosa rimarrà dell’identità aziendale? È questa la vera domanda.
In questa prospettiva, Giamminola appare meno come un teorico e più come un esploratore. Un Darwin digitale che attraversa gli oceani del pensiero per mappare la nuova evoluzione umana. “Non stiamo solo creando intelligenza artificiale”, scrive, “ci stiamo riscoprendo in un nuovo percorso evolutivo.”
Nel finale, il messaggio è chiaro. Non serve saper programmare. Serve sapere ascoltare. Leggere. Comprendere. Saper usare bene l’italiano sarà più importante del conoscere cinque lingue. Perché più che parlare con le AI, dovremo imparare a farci capire da loro. E da noi stessi.
L’AI non è qui per sostituirci. È qui per mostrarci cosa non siamo ancora.
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